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Recensioni / Pratesi



Mauro Pratesi

è titolare delle cattedre di Storia e Fenomenologia delle Arti Contemporanee all’Accademia di Belle Arti di Firenze

Dalla monografia su Mario Caciotti (vedi in bibliografia)
M

ario Caciotti è un pittore che senza meno sarebbe piaciuto a Gianni Testori, credo, per la sua stessa natura umana di artista, avvicinabile in quel solco supremo e, in un certo senso inarrivabile, che ha visto uniti, nel giudizio del critico, Giacometti, Bacon Varlin. Con quest’ultimo Testori intrattenne, fin dai primi anni Sessanta, un fedele rapporto, oltre che critico, di profonda amicizia,ritrovando nell’artista ticinese quel senso profondo della materia che, del resto, non aveva mai abbandonato. La foga con cui Varlin gettava i colori sulla tela dicanapa per creare all’istante capolavori o irrimediabilmente opere sbagliate,senza appello, avevano fatto dire a Testori che l’artista con i suoi quadri avevaafferrato verità «sublimied atroci». La pittura di Varlin era frutto di mescolanze ed essenze dei resti di tutti e di nessun colore: «gli olii, il ripoline, il ducotone, la tempera, l’acqua, la polvere» e infine, per la gioia del critico «il vomito e l’orina». Nessuno era riuscito quanto Varlin ad esprimere, sempre secondoTestori, il «cuore, il sangue, l’ossa, le palpebre, le artriti e i calli della vita», ancheda un punto di vista sociale, certamente, nessuno come lui era stato dalla parte di chi non aveva nessun potere, dalla parte del «barbone assoluto».Non so se la grande lezione di Varlin, nella fondamentale lettura criticatestoriana, sia stata assimilata da Mario, tuttavia, credo che un comune spirito li possa accomunate tanto che il riferimento al maestro ticinese mi pare piùfondante di quello comunemente, più volte avanzato e sostenuto dalla critica,indubbiamente con la partecipazione da parte dello stesso Mario, al nome diVan Gogh . Più volte Caciotti ha affermato che la sua pittura nasce «in velocità», tanto che dopo un’ora diventa un’eternità, perchè dopo «si comincia acorreggere»; quindi Mario come Varlin o azzecca subito nei primi colpi di pennello e di spatola il quadro o lo perde definitivamente. Mario, come un grande interprete jazz che suona senza spartito, ma improvvisa sulla nota sull’onda del suo umore, fa vibrare emotivamente dal suo sangue il trionfo spettacolare dei cadmi, dei rossi, dei blu oltremare e, al pari del mitico clockozm’Wolz di Varlin, prendono forza ritratti di personaggi emarginati e neglet ti dalla vita comune, se, questi, sono Visti sull’onda del successo esteriore di chi ha raggiunto un benessere effimero quanto transeunte e gratificante dell’edoni smo immediato del successo. Mario riserva un amore e un’accoglienza a questi personaggi che restano una testimonianza, anche sociale, una traccia di vita delluogo, altrimenti difficile da rintracciare, nell’azzeramento dei valori, ormai dilaganti, in provincia come in città, di chi vede la realtà sociale dall’alto di unroboante SUV o di una fiammante fuoriserie. I ritratti di Mario sono uomini di una candida umanità, sfortunati o solo emarginati, come Giuliano il giullare,conosciuto per le sue spontanee imitazioni del cantante Gianni Morandi, o il severo, ma buono, carbonaio soprannominato appunto, Fumicone, il ciabattino Lilli, lo sfortunato Robertino, il contadino Nunzio, o il matterello e corrucciato Angelucci: nomi e personaggi che prendono forza e Vita nelle pitture di Caciotti con impeto, formando un’amorevole e appassionata corte dei miracoli che sembra uscita dalle pagine di un romanzo a sfondo popolare di Vasco Pratolini. Così Mario è il cantore di questa zona tra la piana di Sesto e Calenzano che vede uniti i valori di uno sviluppo ricco e opulento dei capannoni industriali,dei giganteschi pilotis, delle villette simil lussuose di disegno modernista coabitanti a case vecchie o antichi casolari. Di questa Piana, ormai quasi mitica,fatta di visioni poetiche in piena luce, ma anche di torbido sottosuolo, Marione è sempre stato innamorato e appagato e, come uno dei suoi cari animalidipinti, gironzola felice per questi luoghi a lui familiari, anche nelle ombre enei fantasmi e riluttante ad allontanarsene, proprio come un animale mansueto,ama riaccucciarsi nella sua tana di Via Pratese. L’ odierna mostra riunisce quasi sessant’anni di pittura, dalle prime prove sulfinire degli anni trenta, fino ai lavori più recenti: circa un centinaio di opere chesvelano un assoluto amore per il colore, inteso come forma e spazio, dove la realtà esiste perché è il colore stesso che la trasfigura e gli da forza; più volte la critica ha 9 avanzato riferimenti, molto giusti, alla pittura fina/e, al gruppo della érz'icée, così come all’umanità allucinata di Ensor o al dolore spettrale di Munch e alla malinconia di Soutine, ma anche alla pittura rude di Rosai e Viani. A questi modelli,Mario alterna rapaci Visioni dalla televisione e, come avido spettatore carpisceimmagini da quei films [71:40 trasmessi a notte fonda, che solo i cinefili di provata fede sanno vedere e individuare quelle qualità che a noi sfuggono; così, Mariosi ritrova a passare molte ore della notte con il taccuino alla mano per disegnaree cogliere preziosi spunti da Lafig/zkz a/z'Rzzjzz o da 1342101}:le cui il protagonista, unkiller buono, gli ricorda il suo Giuliano, l’ingenuo giullare di Sesto. Tra i tanti nomi che la storia ci ha tramandato, molti appartengono inconfutabilmente al luogo, basti pensare ai vari Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano, Benedetto da Maiano. Perciò non è una éoumde affermare Mario da Calenzano e non appaia, quindi, come riduttivo rispetto ad una non meglio definita universalità, poiche’ lo spirito dell’artista si identifica umilmente e profondamente con il luogo della sua ricerca che, nel caso di Mario, ha avutoun vigore formidabile negli ultimi vent’anni, a dimostrazione che la maturità avanzata e la vecchiaia possono dare frutti di una forza assoluta, da temperamento giovanile. Valga, a tale proposito, la lezione del grande Hokusai, mor- to a novant’ anni, nel 1849, il quale, al momento della sua morte, pare abbiaesclamato: «se il cielo avesse potuto concedermi dieci anni di più, o anche solo Cinque, sarei diventato un vero pittorel». Non credo che Mario abbia maiavuto l’opportunità di interessarsi a Hokusai, malgrado certi felici rimandi potrebbero farlo supporre, ma lo spirito e la forza della sua pittura degli ultimi decenni dimostrano la conquista di un’espressività fiorita proprio alle soglie della vecchiaia, frutto dell’indomito e costante lavoro di ricerca di chi non siè abbandonato, nonostante l’età, alle conquiste precedenti. All’opposto, Caciotti ha creduto nell’ispirazione poetica come fonte vitale del lavoro, superando le strettoie delle categorie e delle generazioni anagrafiche e, tante volte, con lesuggestioni della sua pittura dai colori sconvolgenti, frutto del vigore violento, della sua immaginazione, ci rimanda per analogia, alle ricerche pittorichedelle generazioni a lui più giovani. Per eccesso, la presenza di Mario non avrebbe stonato, infatti, all’epocalemostra A New Spirit in Pantz'ng del 1981, nella prestigiosa sede londinese della Royal Academy ofArts accanto a Rainer Fetting, Dieter Hacker, Karl Heinz-Hòdicke, Markus Lupertz, Sigmar Polke, ossia i cosiddetti “Nuovi selvaggi”tedeschi, che insieme agli italiani Clemente, Chia, Paladino, ed altri ancora,furono i protagonisti di una stagione fertile che aveva rimosso un concetto obsoleto e logoro di arte, per rivendicare un ritorno alla pittura, battezzato inonore del recupero esaltante della materia e del colore. Perché no: Mario, che alla pittura ha sempre creduto e, attraverso il suo linguaggio, ha teso a rappresentare situazioni di disagio esistenziale e sociale.


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